Felicissimo ritorno al Lingotto di Claudio Abbado alla testa della Mahler Chamber Orchestra e del Coro della Radio Svedese, più un quartetto vocale di fuoriclasse; un nome solo in programma, Mozart, ma spostando l'obbiettivo fra un'opera ultracelebre come il Requiem in re minore e altre assai meno note, ma non meno significative, contenute nell'immane catalogo. Apertura in punta di piedi con il «Laudate Dominum» dai Vespri solenni K839, pagina di celestiale delicatezza con cui il pubblico ha fatto la conoscenza del soprano Rachel Harnisch: voce non voluminosa ma di stile impeccabile, con una qualità strumentale particolarmente adatta alla liricità distesa, ma tutta intima, di quel brano. Rose e fiori, comunque, rispetto alle arditezze con Magnifici il Coro della Radio Svedese e l'«abbadiana» Mahler Chamber Orchestra con finezze quasi da camera cui ha dovuto misurarsi in «Vorrei spiegarvi, oh Dio», l'aria che Mozart scrisse per un'opera di Pasquale Anfossi, pensando alla voce di una sua antica fiamma, Aloysia Lange: qui l'intensità espressiva e i rischi di voli acrobatici nel registro sovracuto che la Harnisch ha superato con qualche difficoltà, ma senza mai venire meno a una morbidezza canora della più alta classe; sopra tutto ammirevole, nella sezione lenta, il dialogo con l'oboe (altro autentico asso) sul tappeto steso dai lievi pizzicati della magnifica orchestra.
Del Requiem, ascoltato subito dopo senza intervallo, la prima impressione ricevuta è che il nostro direttore riesca a far scomparire quei dislivelli, quelle cuciture col filo bianco, che persistono in una composizione lasciata incompiuta da Mozart e integrata alla meglio dall'allievo Süssmayr, con indubbio senso pratico, ma ovviamente con polso altrimenti agile. Anche lavorando con i consigli e gli appunti dell'autore, le parti centrali della Messa nell'orchestrazione del revisore suonano atone e convenzionali, specie nel confronto ravvicinato con le parti autentiche. Se Abbado riesce a mascherare le disuguaglianze fin dove è possibile, è per la tensione ininterrotta, scabra, essenziale che ci versa dentro: niente lusso, niente vernice esteriore, tutto in una scala «da camera», in armonia con quella «concezione non monumentale» che giustamente Ernesto Napolitano individua nell'opera.
Straordinario dosatore di pesi e misure, Abbado perviene a una sonorità nuova e trasparente del Requiem mozartiano, dove anche l'incombere della tradizione, con tutte le convenzioni della musica sacra del tempo, viene alleggerito e sciolto in puri valori musicali. Il suo punto di partenza, a mio parere, sta in una attentissima lettura del testo e nella sua traduzione in un drammatico contrasto fra parti tenebrose e abbandoni di commovente umanità: lo splendido Coro svedese attacca «Rex tremendae majestatis», dove persino la vibrazione della «erre» diventa musica, con una violenza che sembra spalancare le fauci dell'Eternità; ma in un attimo il quadro terrificante si dissolve in .unatenerissima speranza di salvezza. Stessa vicenda nel «Confutatis maledictis»: ancora, nella veemenza del coro e nell'incitamento dei ritmi, masse che si urtano, precipitando nell'orrore e nello sgomento, e di nuovo la cappa si solleva nelle note smarrite di «Oro supplex»; un calando dove l'anima trova il suo angolo per mormorare la sua preghiera, lasciando dietro di sé come un senso d'incantesimo.
Risultati poetici ottenuti, oltre dalla bravura del coro istruito da Peter Dijkstra, per merito dei quattro solisti, la Harnisch già lodata, Sara Mingardo, Saimir Pirgu, Christof Fischesser: nessuno che «sforasse», come si dice in gergo, eppure capaci di mettere in evidenza qualunque sfumatura. Alla fine, si sa, Süssmayr riprende tale e quale la musica dell'inizio, e forse era difficile trovare un'altra soluzione. Come avrebbe finito Mozart, ne avesse avuto il tempo? Proprio ascoltando con quanta dolcezza Abbado toccasse la corda dell'umana consolazione, ci è venuta l'idea che forse avrebbe chiuso il suo Requiem in un tenue assopimento, lontano da fiamme rituali già conosciute da Bach in alcune Cantate, e dove l'avrebbero raggiunto Schubert, Schumann con il suo Requiem per Mignon e Brahms. Fantasticherie messe in moto da una esecuzione da ricordare e salutata da accoglienze trionfali.
Del Requiem, ascoltato subito dopo senza intervallo, la prima impressione ricevuta è che il nostro direttore riesca a far scomparire quei dislivelli, quelle cuciture col filo bianco, che persistono in una composizione lasciata incompiuta da Mozart e integrata alla meglio dall'allievo Süssmayr, con indubbio senso pratico, ma ovviamente con polso altrimenti agile. Anche lavorando con i consigli e gli appunti dell'autore, le parti centrali della Messa nell'orchestrazione del revisore suonano atone e convenzionali, specie nel confronto ravvicinato con le parti autentiche. Se Abbado riesce a mascherare le disuguaglianze fin dove è possibile, è per la tensione ininterrotta, scabra, essenziale che ci versa dentro: niente lusso, niente vernice esteriore, tutto in una scala «da camera», in armonia con quella «concezione non monumentale» che giustamente Ernesto Napolitano individua nell'opera.
Straordinario dosatore di pesi e misure, Abbado perviene a una sonorità nuova e trasparente del Requiem mozartiano, dove anche l'incombere della tradizione, con tutte le convenzioni della musica sacra del tempo, viene alleggerito e sciolto in puri valori musicali. Il suo punto di partenza, a mio parere, sta in una attentissima lettura del testo e nella sua traduzione in un drammatico contrasto fra parti tenebrose e abbandoni di commovente umanità: lo splendido Coro svedese attacca «Rex tremendae majestatis», dove persino la vibrazione della «erre» diventa musica, con una violenza che sembra spalancare le fauci dell'Eternità; ma in un attimo il quadro terrificante si dissolve in .unatenerissima speranza di salvezza. Stessa vicenda nel «Confutatis maledictis»: ancora, nella veemenza del coro e nell'incitamento dei ritmi, masse che si urtano, precipitando nell'orrore e nello sgomento, e di nuovo la cappa si solleva nelle note smarrite di «Oro supplex»; un calando dove l'anima trova il suo angolo per mormorare la sua preghiera, lasciando dietro di sé come un senso d'incantesimo.
Risultati poetici ottenuti, oltre dalla bravura del coro istruito da Peter Dijkstra, per merito dei quattro solisti, la Harnisch già lodata, Sara Mingardo, Saimir Pirgu, Christof Fischesser: nessuno che «sforasse», come si dice in gergo, eppure capaci di mettere in evidenza qualunque sfumatura. Alla fine, si sa, Süssmayr riprende tale e quale la musica dell'inizio, e forse era difficile trovare un'altra soluzione. Come avrebbe finito Mozart, ne avesse avuto il tempo? Proprio ascoltando con quanta dolcezza Abbado toccasse la corda dell'umana consolazione, ci è venuta l'idea che forse avrebbe chiuso il suo Requiem in un tenue assopimento, lontano da fiamme rituali già conosciute da Bach in alcune Cantate, e dove l'avrebbero raggiunto Schubert, Schumann con il suo Requiem per Mignon e Brahms. Fantasticherie messe in moto da una esecuzione da ricordare e salutata da accoglienze trionfali.
Giorgio Pestelli
La Stampa, 30/04/2009, p. 48
leggi anche "punti di vista" (ancora sul Requiem)
Nessun commento:
Posta un commento