(da Il Giornale della musica)
Per quanto possa sembrare paradossale, la musicologia ha cominciato a rendere giustizia a Felix Mendelssohn Bartholdy assai tardi: data da poco più d’un trentennio la sistematica revisione dei pregiudizi e fraintendimenti che ne avevano pesantemente condizionato la recezione. All’inizio la parata dei luoghi comuni estetici si incentrò sul cliché del “Mozart dell’Ottocento”, dell’artista dai molti talenti (direttore brillante, pianista virtuoso, ma anche pittore raffi natissimo e gran poliglotta), autore di musica serena e piacevolissima. Poco dopo la morte precoce, avvenuta nel 1847, il vento mutò. Entrò in scena Richard Wagner, che non poteva perdonare al rivale, oltre al fatto di essere ebreo, sia la condizione agiata sia, soprattutto, la tecnica impeccabile (di fronte alla quale, da quel quasi autodidatta che era, si sentiva un parvenu: quanti si saranno accorti, quando divenne il protagonista del XIX secolo, dei suoi plagi involontari – vere anniversari Fehlleistungen freudiane – dall’oratorio Paulus nella prima scena del Lohengrin e dalla ouverture La bella Melusina addirittura nel Preludio dell’Oro del Reno?).
Come denigratore Wagner dimostrò una perfida abilità, escogitando nel pamphlet Il giudaismo in musica (1850) formulazioni destinate al successo: Mendelssohn, «il maestro delle piccole cose», preoccupato solo «di esprimere in forma interessante un contenuto pressoché inesistente». Erano enunciate come se fossero ovvietà; caddero in un terreno fertile, furono ripetute sempre più spesso, divennero concetti regolativi. Trent’anni dopo, persino in Inghilterra – la seconda patria di Mendelssohn, che gli aveva tributato in vita i maggiori trionfi – la giovane generazione, già stregata dal Musikdrama, lo giudicava apertamente un sopravvalutato.
Con il dilagare dell’idea che vera può essere solo la musica in grado di attingere la sfera del sublime e del tragico, il compositore reo di costituzionale estraneità al gigantismo fonico e all’ideologia dell’assalto al cielo finì con l’essere sempre più biasimato per ciò che non era, e sempre meno ringraziato per ciò che realmente era.
Non c’è da stupirsi se intorno alla svolta di secolo, quando pochi titoli musicali ebbero più fortuna delle Romanze senza parole, il loro autore appariva adatto, come scrisse Ralph W. Wood, soprattutto alla «vasta classe inferiore dei musicofili dalle opinioni basate sul dilettantismo e sulla superfi cialità di gusto». Sconcertante, in fin dei conti, non è il fatto che la prima metà del Novecento, culminata nel dodicennio nazista e nella messa al bando del compositore, abbia prodotto molte variazioni su questo basso ostinato; sconcertante è semmai che anche nel dopoguerra l’intreccio perverso di pregiudizi estetici e di ostilità mascherata da oggettività abbia continuato a generare frutti imbarazzanti tra i musicologi, non solo di lingua tedesca, e non esclusi i maggiori (nella sua autorevole Musikgeschichte im Überblick Jacques Handschin liquida Mendelssohn in 15 righe zeppe di sarcasmi; a Gerald Abraham si deve un quasi ridicolo biasimo della Sinfonia Lobgesang per la sua non più che esteriore somiglianza con la Nona beethoveniana).
A queste difficoltà diede espressione il titolo, impensabile per Bach o Brahms, di una raccolta di saggi uscita nel 1974 a cura di Carl Dahlhaus: Il problema Mendelssohn. Causa ed effetto vi appaiono curiosamente rovesciati: del problema che alcuni avevano, o avevano avuto con la sua musica, si era fatto un problema dell’autore stesso. Oggi il panorama è mutato; una nuova immagine di Mendelssohn, diversa da quella promessa sin nel titolo dalla non irreprensibile monografi a di Eric Werner (1963), è emersa grazie alle ricerche degli ultimi decenni. I risultati sono talora sorprendenti. Poco è rimasto del quadro stucchevole del Felix di nome e di fatto, amato dagli dei e sulla terra da Goethe in persona, cui tutto era riuscito facile: dietro quelle sue maniere da gentiluomo vittoriano, discreto e affabile, si nascondeva in realtà una natura tormentata, autocritica sino all’esasperazione. [...]
L'articolo continua sul numero di Febbraio 2009, n. 256, p. 18, qui le condizioni per abbonarsi.
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Per quanto possa sembrare paradossale, la musicologia ha cominciato a rendere giustizia a Felix Mendelssohn Bartholdy assai tardi: data da poco più d’un trentennio la sistematica revisione dei pregiudizi e fraintendimenti che ne avevano pesantemente condizionato la recezione. All’inizio la parata dei luoghi comuni estetici si incentrò sul cliché del “Mozart dell’Ottocento”, dell’artista dai molti talenti (direttore brillante, pianista virtuoso, ma anche pittore raffi natissimo e gran poliglotta), autore di musica serena e piacevolissima. Poco dopo la morte precoce, avvenuta nel 1847, il vento mutò. Entrò in scena Richard Wagner, che non poteva perdonare al rivale, oltre al fatto di essere ebreo, sia la condizione agiata sia, soprattutto, la tecnica impeccabile (di fronte alla quale, da quel quasi autodidatta che era, si sentiva un parvenu: quanti si saranno accorti, quando divenne il protagonista del XIX secolo, dei suoi plagi involontari – vere anniversari Fehlleistungen freudiane – dall’oratorio Paulus nella prima scena del Lohengrin e dalla ouverture La bella Melusina addirittura nel Preludio dell’Oro del Reno?).
Come denigratore Wagner dimostrò una perfida abilità, escogitando nel pamphlet Il giudaismo in musica (1850) formulazioni destinate al successo: Mendelssohn, «il maestro delle piccole cose», preoccupato solo «di esprimere in forma interessante un contenuto pressoché inesistente». Erano enunciate come se fossero ovvietà; caddero in un terreno fertile, furono ripetute sempre più spesso, divennero concetti regolativi. Trent’anni dopo, persino in Inghilterra – la seconda patria di Mendelssohn, che gli aveva tributato in vita i maggiori trionfi – la giovane generazione, già stregata dal Musikdrama, lo giudicava apertamente un sopravvalutato.
Con il dilagare dell’idea che vera può essere solo la musica in grado di attingere la sfera del sublime e del tragico, il compositore reo di costituzionale estraneità al gigantismo fonico e all’ideologia dell’assalto al cielo finì con l’essere sempre più biasimato per ciò che non era, e sempre meno ringraziato per ciò che realmente era.
Non c’è da stupirsi se intorno alla svolta di secolo, quando pochi titoli musicali ebbero più fortuna delle Romanze senza parole, il loro autore appariva adatto, come scrisse Ralph W. Wood, soprattutto alla «vasta classe inferiore dei musicofili dalle opinioni basate sul dilettantismo e sulla superfi cialità di gusto». Sconcertante, in fin dei conti, non è il fatto che la prima metà del Novecento, culminata nel dodicennio nazista e nella messa al bando del compositore, abbia prodotto molte variazioni su questo basso ostinato; sconcertante è semmai che anche nel dopoguerra l’intreccio perverso di pregiudizi estetici e di ostilità mascherata da oggettività abbia continuato a generare frutti imbarazzanti tra i musicologi, non solo di lingua tedesca, e non esclusi i maggiori (nella sua autorevole Musikgeschichte im Überblick Jacques Handschin liquida Mendelssohn in 15 righe zeppe di sarcasmi; a Gerald Abraham si deve un quasi ridicolo biasimo della Sinfonia Lobgesang per la sua non più che esteriore somiglianza con la Nona beethoveniana).
A queste difficoltà diede espressione il titolo, impensabile per Bach o Brahms, di una raccolta di saggi uscita nel 1974 a cura di Carl Dahlhaus: Il problema Mendelssohn. Causa ed effetto vi appaiono curiosamente rovesciati: del problema che alcuni avevano, o avevano avuto con la sua musica, si era fatto un problema dell’autore stesso. Oggi il panorama è mutato; una nuova immagine di Mendelssohn, diversa da quella promessa sin nel titolo dalla non irreprensibile monografi a di Eric Werner (1963), è emersa grazie alle ricerche degli ultimi decenni. I risultati sono talora sorprendenti. Poco è rimasto del quadro stucchevole del Felix di nome e di fatto, amato dagli dei e sulla terra da Goethe in persona, cui tutto era riuscito facile: dietro quelle sue maniere da gentiluomo vittoriano, discreto e affabile, si nascondeva in realtà una natura tormentata, autocritica sino all’esasperazione. [...]
Maurizio Giani
L'articolo continua sul numero di Febbraio 2009, n. 256, p. 18, qui le condizioni per abbonarsi.
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1 commento:
Prima o poi doveva capitare... visto gli intenti simili dei due blog; meglio comunque averlo pubblicato in due... !!
Forse, qualcuno in più, così lo leggerà ;-))
Saluti carissimi.
HvT
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