venerdì 12 settembre 2008

12 settembre

In tutte le agende ci sono date più affollate di altre, perché gli eventi non badano ai giorni ma s’insinuano a loro capriccio nelle anse del fiume, sia esso quello grande della Storia mondiale, quello medio degli avvenimenti interni di una nazione, o quello piccolo della cronaca locale. L’11 settembre è ormai su scala planetaria sinonimo di Twin Towers e Ground Zero, laddove fino a sette anni fa era lo era di Salvador Allende e di Inti-Illimani; fino a oggi, il 12 settembre era una data abbastanza qualunque, ma da quest’anno potrebbe essere quella di morte dell’Alitalia, e conseguentemente quella di nascita dell’incubo-disoccupazione per alcune migliaia di lavoratori e per le loro famiglie. Passando dal palcoscenico nazionale a quello metropolitano, c’è inoltre modo di notare come in questo 12 settembre si diano appuntamento, a Torino, due eventi solo apparentemente privi di connessioni reciproche.

Quando nella sala del cinema intitolato ai Fratelli Marx si farà buio, e sullo schermo compariranno i primi fotogrammi della Fabbrica dei tedeschi, il film dedicato da Mimmo Calopresti alla tragedia della Thyssen-Krupp, da qualche ora la Villa Tesoriera avrà smesso di essere quello che per i torinesi della mia età è stata da sempre: la biblioteca musicale pubblica che tutta Italia ci invidia. Per fortuna, la chiusura della sede non comporta quella dell’istituzione: tra qualche mese i libri saranno di nuovo disponibili, più vicini al centro cittadino, secondo modalità di consultazione, distribuzione e prestito più snelle e al passo coi tempi. Mancherà, questo sì, quell’atmosfera rarefatta, aristocratica al punto da imporre fino all’ultimo il costume antico dell’utilizzo del catalogo cartaceo; e con lei svaporeranno quei tempi, rilassati ma mai estenuanti, di attesa al bancone; favorevoli al nascere - in parallelo a qualche carriera - di infatuazioni effimere, di passioni durature, di amicizie solide, di amori grandi e piccoli.
Cosa accomuna la Thyssen e la Tesoriera, a parte la “T” iniziale? È da un pezzo che me lo chiedo, ossia da quando il trasferimento della biblioteca è stato annunciato qualche mese fa, e dato che nessuno me l’ha saputo spiegare adesso provo a spiegarlo io.

La sera del 5 dicembre 2007, mentre alcuni operai si davano il cambio in acciaieria, io entravo in "sala presse". Loro andavano a lavorare, io ad ascoltare musica. Mentre alla Thyssen partiva la colata delle nove, al Lingotto entrava in scena Pollini, quello che ai tempi in cui “11 settembre” voleva dire Allende e Inti-Illimani andava a suonare Stockhausen nelle Thyssen di allora, inseguendo il sogno un tantino velleitario di mettere la classe operaia in sintonia con la musica che ambiva a denunciare l’alienazione dell’individuo moderno. L’onestà intellettuale che animava quelle scelte era se possibile superiore al valore artistico degli eventi che produceva ma, valutata a tre decenni di distanza, la ricaduta di quelle iniziative sull’educazione musicale della classe lavoratrice si dimostra inapprezzabile; e non a causa della presunta scomparsa del proletariato.

Quello del 5 dicembre 2007 era un concerto speciale, e non solo per la fama dell’interprete e per l’originalità del programma. Si trattava di un concerto che l’Unione Musicale e Mi-To Settembre Musica avevano voluto dedicare – a un anno dalla scomparsa - alla memoria di Giorgio Balmas, fondatore dell’associazione nel 1946 e inventore del festival nel 1978. Pollini aveva scelto Chopin e Debussy, due giganti della letteratura pianistica, offrendo un’interpretazione superlativa di qualche pagina famosa, ma senza vietarsi l’arrocco consueto; nell’occasione, fra le asperità di alcuni sceltissimi Etudes. Nella liturgia del concerto una nota stonata c’era, e non proveniva dall’artista, ma dal pubblico. Nelle file migliori, paracadutatovi da chissà quale bizzarria della sorte, in un parterre affollato da intenditori di musica, persone importanti con l’abito buono, signore eleganti avvolte dalle fragranze più ricercate c’era un clochard. Un uomo di circa quarant’anni, grassoccio, vestito con un camicione di pile a quadrettoni e un paio di pantaloni di velluto marrone, una barba alla Musorgskij ritratto da Repin e due lenti spesse, oltre le quali s’intravedeva uno sguardo spento. Se la platea fosse stata una scacchiera e io un cavallo, avrei potuto mangiarmelo con una mossa sola. Lo avrei fatto subito, immolandomi per un’unica ma decisiva ragione: perché credo che l’acqua avesse smesso di accarezzare il suo corpo al tempo in cui le Twin Towers si ergevano con tutta la loro fierezza. Emanava, a ondate tanto improvvise quanto irreprimibili, un tanfo di sudore insopportabile. Mai ho desiderato come quella sera che il concerto finisse in fretta, perché il Lingotto era gremito al limite della capienza e trovare posto altrove era impossibile, né dal mio auspicio riusciva a distogliermi un Pollini in letterale stato di grazia. Me lo sono portato fino a casa, quel puzzo di sudore, e solo uno spaghetto aglio e olio in grado di stendere un reggimento è riuscito, ben oltre la mezzanotte, a far riemergere dalla mia mente il ricordo delle pagine di Chopin e Debussy, dal primo Preludio all’ultimo Etude.

Il mattino dopo, ascoltando la radio ho appreso del rogo della Thyssen. Quando la sera, al telegiornale, ho visto le interviste ai sopravvissuti, la prima cosa che mi ha colpito è stata la proprietà di linguaggio con cui essi si esprimevano. Lì mi si è chiuso il cerchio; lì ho capito il significato delle zaffate di sudore che fendevano a tradimento l’aria dell’ex fabbrica divenuta auditorium: il livello d’istruzione medio di quelli che erano con me ad ascoltare Chopin nella penombra della "sala presse" non era diversissimo da quello di chi, fra i bagliori dell’acciaieria, si era frattanto preso addosso una sventagliata di olio bollente. Detto più banalmente, quella sera al Lingotto ad ascoltare Pollini avrebbe potuto esserci uno di quelli che erano alla Thyssen, e a lavorare alla Thyssen avrei potuto esserci io, o uno di quelli che in queste ore rischiano il posto nella nostra compagnia di bandiera. Se quella sera io mi trovavo al Lingotto e la hostess Alitalia dispensava sorrisi ai passeggeri della business class, mentre un gruppo di nostri coetanei con un diploma superiore in tasca si arrostiva nella fabbrica dei tedeschi, il merito va anche alle istituzioni che hanno consentito, a me e a lei, d’inventarci un mestiere un po’ diverso. Limitando l’esemplificazione al mio caso, una buona università pubblica e un’efficiente biblioteca civica: istituzioni che, assistiti da un po’ di fortuna, avrebbero potuto frequentare con profitto anche alcuni fra quelli che lavorano oggi nelle varie Thyssen d’Italia. Il proletariato non è scomparso, ha solo cambiato volto: rispetto a una volta sa produrre meno prole, ma molte e migliori parole, e grazie ed esse, concepire progetti e coltivare ambizioni; e per questo motivo non costituisce più una classe omogenea ma un soggetto tentacolare e sfuggente.

Se Pollini tornasse a suonare nelle fabbriche, magari portandoci Chopin o Debussy, ad ascoltarlo troverebbe un pubblico meno sprovveduto di quello a cui proponeva a suo tempo le lacerazioni delle avanguardie; ma non lo farà mai, e con tutte le ragioni di questo mondo. Così come La fabbrica dei tedeschi finirà nelle scuole, stimolando nei ragazzi la riflessione, e magari la passione civile e politica, senza pretendere di fare di nessuno né il nuovo Calopresti né il nuovo Di Vittorio, nelle scuole devono finire Chopin e Debussy; stimolando nei ragazzi la riflessione, e magari la passione per l’arte, senza pretendere di fare di nessuno il nuovo Pollini o il nuovo Mila.

Sedicente capitale della musica, Torino s’è dotata nella scorsa primavera di una Fondazione preposta alle attività ad essa collegate. Coordinare l’offerta di concerti e di eventi culturali che coinvolgono la musica è solo uno degli obiettivi che essa deve perseguire; l’altro, a mio avviso indispensabile, è suscitare la passione, soprattutto in coloro che non possono contare su un’istruzione musicale di base. Lasciando alle varie istituzioni scolastiche il compito d’istruire i rispettivi studenti, per meritare appieno il titolo che le viene attribuito nel panorama culturale italiano Torino deve esperire strategie volte a suscitare la passione per la musica; per la musica in quanto fine, e per la musica in quanto mezzo, ossia in quanto chiave in grado di aprire a tutti porte oltre le quali si schiudono scenari nuovi e non di rado seducenti.

Alberto Rizzuti

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