Dallapiccola, disciplina dodecafonica
«Spera, fratello, spera ardentemente; devi sperare sino a spasimarne; devi sperare ad ogni ora del giorno; vivere devi per poter sperare.» Si può individuare in questa frase, pronunciata dal Carceriere nella scena II e rivolta al Prigioniero, il nucleo centrale de Il Prigioniero, opera in un prologo e un atto di Luigi Dallapiccola; anche il libretto è del compositore che si è ispirato al racconto La Torture par l’espérance di Villiers de l’Isle–Adam e al romanzo La Légende de Ulenspiegel et de Lamne Goedzak di Charles de Coster.
Libertà e speranza
Il soggetto dell’opera è semplice: l’ambientazione è la Spagna del XVI secolo e vi è un prigioniero in attesa dell’esecuzione da parte dell’Inquisizione. Nel prologo la Madre è afflitta da un incubo ogni notte, le si materializza una figura spettrale che muove verso di lei, si concretano le fiamme dei roghi e i contorni si precisano: è Filippo II, il cui volto successivamente si trasforma nella Morte.
L’atto unico si apre sulla cella nella prigione di Saragozza, il Prigioniero racconta alla Madre di un “azione” che «mi diede ancor fiducia nella vita»: il Carceriere nell’atto di torturarlo una sera lo chiamò «fratello». Il Prigioniero confessa alla Madre che questa sola parola gli ha permesso di iniziare nuovamente a sperare e a pregare; la Madre resta comunque rattristata perché sa quale sorte attende il figlio. Entra il Carceriere raccontando della rivolta che infiamma nelle Fiandre e della marcia vittoriosa dell’Esercito dei Pezzenti; la Campana di Gand tornerà a suonare e presto ci sarà la caduta di Filippo e la fine dell’Inquisizione per mano di Carlo V. Il Carceriere fantastica scenari di libertà (nell’Aria in tre strofe Sull’Oceano) e ciò rende ancora più speranzoso il Prigioniero, grato verso il Carceriere per avergli ridato la possibilità di sperare. Il Carceriere esce lasciando la porta della cella socchiusa, quasi un invito a evadere; il Prigioniero si avvia attraverso un lungo corridoio labirintico e nero verso forse la libertà, non si accorge di incontrare un «Fra Redemptor» con in mano strumenti di tortura, né due monaci lungo il cammino. Giunge all’aria aperta e il suono di una campana sembra preannunciargli la libertà.
Il Prigioniero è in un grande giardino, assapora gli odori, la luce della libertà; (scena IV) ad un tratto si sente costretto in un possente abbraccio, si ode la voce del Carceriere: «perché ci volevi abbandonare?», così il Prigioniero di colpo comprende tutto: il Grande Inquisitore prima della morte lo ha sottoposto ad un ultima atroce tortura: quella di sperare. Egli oramai non ha più forze e si lascia condurre verso le fiamme che si vedono sullo sfondo.
Libertà e oppressione
Risalgono all’estate del 1939 i primi propositi di creare un’azione scenica suggeriti dalla lettura del racconto La torture par l’espérance, uno dei Contes cruels del conte Villiers de l’Isle Adam; gli eventi storici precipitarono e il compositore maturò l’idea di un lavoro strettamente connesso ai problemi attuali. Egli stesso scrive «mi appariva sempre più chiara la necessità di scrivere un’opera che, nonostante la sua ambientazione storica, potesse essere di toccante attualità; un’opera che trattasse la tragedia del nostro tempo, la tragedia della persecuzione, sentita e sofferta da milioni e decine di milioni di uomini. L’opera sarebbe stata intitolata Il Prigioniero, semplicemente.» La composizione durò tra il 1943 e il 1948, terminata in partitura il 3 maggio 1948, l’opera venne eseguita per la prima volta in forma di concerto alla Radio di Torino il 1° dicembre 1949 e in forma scenica al Maggio Musicale Fiorentino il 20 maggio 1950.
Il Prigioniero non si ricorda unicamente perché è la prima opera teatrale di Dallapiccola o per il suo soggetto di stretta attualità storica e politica, anche perché al compositore interessava di più trasmettere un messaggio di protesta (universale) contro l’oppressione e la tirannia; altre sono le particolarità dell’opera, quali la disciplina dodecafonica basata non soltanto sulle nervature delle serie, costruite in modo da consentire la massima ampiezza della gamma espressiva, fino a inglobare le tensioni melodiche del canto come Sergio Sablich acutamente rileva.
Il tempo è scandito da sezioni narrative collegate fra loro da interludi orchestrali: il prologo è incentrato sul racconto da parte della Madre degli incubi e delle visioni notturne sulla sorte del figlio; l’atto unico ruota intorno alla frase del Carceriere. Le parole del Carceriere stabiliscono una condivisione di dolore con il Prigioniero, sottolineate anche dalla linea musicale che riprende il profilo intervallare della linea della Madre nel Prologo, eppure è solo apparente in quanto la serie è già pervasa da un senso di morte che si paleserà nella scena IV con la comparsa del Grande Inquisitore. Nell’opera si alternano momenti solistici e corali, lirici e drammatici, l’animo del protagonista subisce una metamorfosi: dall’afflizione alla speranza e dalla speranza alla disillusione. Il fulcro di tale movimento è la scena II con i racconti del Carceriere intrisi di subdola speranza in quanto è egli stesso ad affondare l’ultimo barlume di forza del Prigioniero a cui rimane solo «La Libertà?», questa volta soltanto espressa con tono nettamente interrogativo, come riporta la didascalia del libretto.
Si è parlato di disciplina dodecafonica non a caso in quanto alcune parole, quali «fratello», «speranza», «libertà» sono fortemente connotate e dal ruolo rivestito nell’economia dell’atto e soprattutto dalle configurazioni seriali principali (la serie del Prigioniero e della Madre); Il Prigioniero dunque è possibile definirla come l’opera del contrasto, dell’opposizione in quanto la parola Fratello è intrisa di (illusoria) speranza e comunione di sentimenti, cela invece la prosecuzione della tortura attraverso l’inganno il tutto orientato verso un cammino di morte.
Il Prigioniero e il Carceriere-Grande Inquisitore appaiono in fondo assimilati da comune sorte: esperire la privazione della libertà, che può colpire oppressi e oppressori.
Marida Rizzuti
Liberamente tratto da Sipario, n.700-701, novembre-dicembre 2007, anno LXII, pp. 72-3
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